Farmaci e cure - luoghi comuni

Il luogo comune più sedimentato e difficile da sradicare è quello in base al quale se un farmaco viene prescritto e somministrato, vuol dire che era necessario. Necessario a chi?... Ma al paziente s'intende. Si parte così da un dato di fatto vero (il farmaco prescritto e somministrato) per giungere subito a una conclusione falsa, e cioè che il farmaco era necessario al paziente. Poteva benissimo non esserlo. Ma, se il farmaco è necessario, allora questa neccessità viene a spartirsi fra due soggetti diversi fra loro: il cliente e il venditore (che è un soggetto multiplo e complesso, come vedremo). Per il cliente l'assunzione del farmaco è indotta e non autogenerata, in quanto si dà per scontato che qualcuno per lui, degno di fiducia e ben preparato in materia, ne ha stabilito la sua utilità. Si è così data la delega della nostra salute a qualcun altro che se ne occupa in nostra vece. Questo "qualcun altro", l'abbiamo già accennato, è un soggetto multiplo e complesso che si rifà alle leggi di mercato, e non alle aspettative salviche e salutistiche da parte del cliente.
È abbastanza chiaro che l'esigenza che ci spinge ad andare al mercato per comprare un chilo di mele è più o meno equivalente a quella del fruttivendolo che ce le vende. A noi serve mangiarle al fruttivendolo venderle. Le mele per il cliente sono alla base di un'esigenza fisiologica e/o organolettica, mentre l'assunzione di un farmaco (va da sé) non dipende da noi, dalla nostra capacità di discernere la sua effettiva utilità, ma dalla prescrizione medica, che a sua volta si basa su un sistema globale standardizzato, con all'interno annessi e connnessi. Il sistema medico-farmaceutico, non essendo un'opera pia di beneficenza, ha necessità di fare introiti con la vendita dei farmaci.
Questo sistema medico-sanitario è una vera e propria catena di Sant'Antonio basata sulla fiducia incondizionata da parte dell'utente finale e corroborata dalla propaganda rassi-curante sulla reale ed effettiva necessità delle cure farmacologiche, garantite e certificate dal mondo specialistico in quanto fondate sul metodo scientifico. Quale sia questo metodo (che di scientifico non ha nulla) lo si può dedurre facilmente dal fatto che gli enti preposti al controllo e alla verifica del prodotto farmaceutico sono pagati dalle stesse aziende produttrici, così come le riviste prestigiose medico-scientifiche che lo pubblicizzano e ne avallano la validità scientifica. L'eco finale amplificato a dismisura di questa validità ed efficacia del farmaco immesso nel mercato, è dato dal bombardamento fatto a tappeto dai mezzi di informazione ufficiali.
Il rapporto dunque che si instaura tra cliente-paziente e medico-venditore è di tipo fideistico e religioso, con tutte le sue specificità rituali. Il paziente-cliente diventa così il malato-peccatore che va a confessarsi dal medico-stregone: figliolo quante volte hai peccato?... Tante, vero!... allora prendi questa pilloletta, una la mattina e una la sera. La salute sia con te. Amen. È come prendere l'ostia a messa. L'attegiamento interiore è lo stesso.
Ma questo fideismo farmacologico (e non solo) è trasversale e prende tutte le fasce della popolazione, l'ignorante come l'esperto. Restai di sasso quando una psichiatra redarguì il mio dissenso esclamando: "ma se ti hanno dato gli psicofarmaci a quell'età [7-18 anni] vuol dire che servivano!"; vale a dire, servivano per curare i postumi della meningite
che avevo contratto, guarda caso, con la vaccinazione scolastica. Il fatto grave è che questa specialista delle malattie mentali e neurologiche non cerca di sapere l'anamnesi del soggetto e le sue condizioni, le situazioni concomitanti, quali psicofarmaci furono somministrati, in che modo, per quanto tempo, per quale scopo, ecc. Questi problemi non esistono, quasi fossero stati cancellati ab ovo dal bagaglio del sapere specialistico; una tabula rasa questa che consente unicamente la possibilità in base alla quale i farmaci sono prescriti e somministrati in quanto servono.
L'ignorante e lo specialista, a quanto pare, vanno a braccetto, si direbbe siano diventati un'anima e un corpo. Tranne qualche rara eccezione (che per fortuna esiste ancora), il fideismo specialistico o meno, è sempre lo stesso: "se ti hanno dato gli psicofarmaci vuol dire che servivano!" che in senso generale diventa, in modo indiscutibile: "un farmaco viene prescritto poiché è necessario
(sottointeso) al paziente".
Ammettendo la possibilità della buona fede - voglio essere accondiscendente - che un farmaco venga studiato, prodotto e prescritto per un dato disturbo, ciò non toglie che non vi possa essere la possibilità, tutt'altro che remota, che una malattia venga inventata di sana pianta, per un farmaco da produrre e lanciare sul mercato. Ed è proprio il "malcostume" sistemico che permette la possibilità di inventare malattie su vasta scala, in quanto condizione sine qua non per il funzionamento del mercato.

Il luogo comune che vige sulla pretesa assurda dell'utilità del farmaco lo possiamo esprimere con un sillogismo aristotelico. Come si vede la prima proposizione è preconcettuale per quanto abbiamo finora qui spiegato.
  1. Ogni farmaco cura il disturbo specifico
  2. Il dottore prescrive il farmaco al paziente
  3. Quindi il paziente ha necessità di tale farmaco
Ma l'utilità o meno per la sua salute non l'ha stabilita il paziente, che non ne sa niente. Il suo è un mero atto di fede. La gestione della sua salute non è sua, poiché viene gestita a monte, da chi della sua salute non saprebbe proprio che farsene se non per fare quattrini.

L'Igiene Naturale ci ha insegnato che solo il corpo cura, e si prende responsabilmente
cura di se stesso, senza altro interesse se non quello di riottenere l'equilibrio perduto; il corpo è la sua stessa panacea (il rimedio di tutti i mali). Il farmaco (la cui etimologia viene dalla parola greca pharmakon, vale a dire veleno), invece, interferisce con i processi biochimici e psico-fisici di autoguarigione, creando squilibri e danni, per cercare di risolvere (mascherare il più delle volte) il disturbo specifico, impedendo o ritardando così l'autoguarigione.


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